Dove le Note Incontrano il Codice: breve viaggio dentro la Musica Algoritmica

È un pomeriggio d’aprile quando varco la soglia degli studi di AIVA, una delle piattaforme di composizione automatica più all’avanguardia. Tra tastiere MIDI e monitor illuminati, scorgo uno dei suoi tecnici, intento a riprodurre sullo schermo sequenze armoniche che sembrano frutto di un’orchestra invisibile. È qui che prende forma il mestiere del “compositore algoritmico”: un professionista che addestra i modelli di intelligenza artificiale a capire gli stili del passato e a inventarne di nuovi, come se fosse un apprendista di Ludwig van Beethoven o di Jean Sibelius.
Secondo il Global Music Report 2025 stilato dall’IFPI, lo streaming ha generato oltre 20 miliardi di dollari di ricavi nel 2024, una cifra che ha superato i picchi di un’industria fondata sul vinile e sul CD. Oggi, la musica non arriva più nei negozi: si diffonde attraverso algoritmi che scelgono istantaneamente il brano, l’artista e il mood adatto al nostro stato d’animo. E non si limita a consigliarci: le stesse tecnologie stanno componendo colonne sonore e jingle pubblicitari, aprendo scenari che fino a pochi anni fa appartenevano alla fantascienza.
Nel racconto di Claudia Molon, emerge un’inquietante domanda sull’autorialità: «Se un algoritmo compone un arpeggio ispirato a Bach, chi merita il credito?». In un articolo pubblicato sul Journal of New Music Research, Molon sottolinea come la coesistenza di creatività umana e artificiale richieda nuove regole di copyright e una riflessione sul ruolo del genio individuale.
Ma prima ancora di risolvere le questioni legali, serve capire come lavorano questi compositori digitali. Alla base c’è il processo di “addestramento”: si alimentano reti neurali con migliaia di sample di Mozart, di Billie Eilish, di dubstep e di colonne sonore cinematografiche. Da quel mare di note emergono pattern, ossia schemi di accordi e ritmi ricorrenti, che vengono poi “remixati” in chiavi e tempi scelti dall’utente.
Ricordo ancora le parole di BT (Brian Transeau), pioniere della musica elettronica, che in un’intervista rilasciata a Gala Games mi spiegò: «È come domandare a un pianista virtuoso di improvvisare su un tema sconosciuto: devi dargli alcune note di partenza, poi lui costruisce un intero pezzo ricco di sfumature». Di fatto, il compositore algoritmico sceglie le note di partenza (i seed) e calibra i parametri emotivi: intensità, durata, complessità melodica.
Accanto a questa figura ne nasce un’altra, più immediata nell’ascolto quotidiano: il curatore di playlist generative. Se un tempo bastava selezionare brani affini per genere – “rock anni ’90” o “jazz rilassante” – oggi si costruiscono algoritmi capaci di combinare vibrazioni sonore in base a parametri psicologici. In altre parole, non si parla più di decine di tag, ma di emozioni misurabili: nostalgia, euforia o concentrazione.
Su questo fronte, la ricerca di Accenture rivela che il 74% delle aziende che ha implementato applicazioni di generative AI nella musica ha registrato un aumento del coinvolgimento degli utenti superiore al 20%. Questi numeri mostrano che non basta produrre musica: occorre soprattutto saperla distribuire in modo persuasivo.
Al centro di questa alchimia c’è una competenza tecnica ma anche psicologica: il music data analyst, che interpreta i dati di ascolto per perfezionare i filtri delle piattaforme. Patrik N. Juslin, psicologo della musica, al SXSW Music & Technology Panel 2024 spiegò come «un brano generato da IA possa suscitare una risposta emotiva autentica se rispetta le leggi del nostro cervello: variazioni di tempo, pause strategiche, modulazioni tonali». Consentire all’IA di riprodurre dinamiche così sottili richiede una conoscenza approfondita delle psicologie d’ascolto.
Non si tratta quindi di sostituire il musicista, ma di dotarlo di uno strumento che amplifichi la sua capacità di innovare. Ecco che la parola “composer” ritorna: anche se la mano che compone è un algoritmo, dietro c’è sempre una mente umana che seleziona dati, monitora processi e decide il taglio finale.
L’impatto culturale di questa trasformazione è già visibile: alcune etichette discografiche, tra cui la celebre Warp Records, hanno iniziato a sponsorizzare EP realizzati interamente da AIVA e OpenAI Jukebox, senza alcuna traccia di intervento umano nelle fasi di scrittura. Gli ascoltatori, curiosi, valutano queste opere in base allo stesso metro critico: atmosfera, coerenza stilistica, capacità di emozionare.
Il vero cambio di paradigma consiste nel riconoscere che l’emozione non risiede nello strumento ma nell’idea. Se un brano generato dal codice riesce a farmi battere il cuore, vuol dire che l’algoritmo ha compreso una porzione della nostra esperienza umana. Il futuro, allora, appartiene a chi saprà integrare sensibilità e tecnica: a un artista che, con la mente da semiologo e le mani digitali, disegnerà la colonna sonora del domani.
J.Malo per MAC PEER. Maggio 2025