Il dopo-smartphone

Il dopo-smartphone. Come l’IA sta disegnando i gadget del futuro

Il dopo-smartphone
Come l’IA sta disegnando i gadget del futuro

Quando nel 2035 scenderemo in strada senza più l’impulso di toccare lo schermo di un telefono, l’idea di “dispositivo” sarà diventata così discreta da confondersi con l’aria che respiriamo. È l’immagine – a metà fra cronaca e previsione – che aleggia oggi negli studi di ricerca e nei laboratori di design, dove la combinazione fra intelligenza artificiale e nuove interfacce sta riscrivendo la grammatica dell’elettronica di consumo.

«Fra dieci, quindici anni non avremo più smartphone: parleremo a braccialetti intelligenti e vedremo i contenuti proiettati su lenti aumentate», ha scommesso Yann LeCun, chief AI scientist di Meta, in una recente conversazione divulgata su LinkedIn. Lo schermo tascabile, dice LeCun, resterà nel taschino come cervello-modem, ma la scena sarà dominata da un paio di occhiali capaci di tradurre cartelli stradali al volo e di aggiungere layer digitali alla realtà.

Mark Zuckerberg spinge la visione ancora più avanti: «Fra dieci anni ti sveglierai e lascerai il telefono a casa; userai gli occhiali per la maggior parte delle cose». Nella sua intervista a The Verge dedicata al prototipo Orion, il fondatore di Meta definisce lo smartphone «un formato arrivato alla sua fase terminale di noia» e vede negli aggiornamenti over-the-air l’arma segreta per rendere davvero smart i Ray-Ban Meta, oggi venduti come accessorio da passeggio, domani promossi a piattaforma primaria.

Non tutti, però, brindano al funerale dell’iPhone. Tim Cook, interrogato dagli analisti sui margini di innovazione rimasti al prodotto simbolo di Cupertino, ha risposto senza esitazioni: «C’è ancora moltissimo da inventare». E ha ribadito che lo smartphone continuerà a evolversi in forme nuove – pieghevoli, sottilissime, forse arrotolabili – restando per ora il baricentro del business Apple  . Non è solo marketing: in un mercato che conta miliardi di utenze attive, abitudini e infrastrutture hanno inerzia superiore a qualsiasi prototipo.

A metà strada fra queste visioni opposte si muovono prodotti di transizione come l’AI Pin di Humane: 55 grammi di alluminio da portare sul bavero, senza tastiera né display, controllati da voce e proiezioni laser. L’obiettivo dichiarato è «liberarci dallo schermo del telefono», ma la prima generazione, costosa e acerba, dimostra quanto sia difficile scardinare quindici anni di gesti multitouch. È comunque un indizio del futuro: dispositivi-satellite, indossabili in punta di dita o appuntati al petto, che dialogano con modelli linguistici remoti e ci restituiscono risposte filtrate dall’AI in forma vocale o olografica.

La stessa idea di “computer invisibile” è la stella polare di Sundar Pichai. «Il prossimo grande passo sarà far svanire il concetto stesso di device: il computer, qualunque sia il suo fattore di forma, fungerà da assistente intelligente che ti segue ovunque», scriveva il CEO di Google già nel suo “Founders’ Letter” del 2016, anticipando l’attuale slogan “AI first” e il concetto di ambient computing. Oggi, con Gemini alle spalle e gli agenti conversazionali in rampa di lancio, quell’ambizione torna a essere centrale: più che sostituire un apparecchio con un altro, Google punta a dissolverlo nell’ambiente, orchestrando sensori distribuiti, comandi vocali contestuali e intelligenza situata.

Intanto, il polso continua a essere un terreno di conquista cruciale. Non è solo una questione di notifiche: Apple lavora da oltre dieci anni alla misurazione non invasiva del glucosio – progetto ormai in fase di proof-of-concept grazie a chip fotonici e spettroscopia laser. Se la tecnologia arriverà in un Apple Watch entro il decennio, potrà cambiare la vita non solo ai diabetici ma a chiunque voglia tenere sotto controllo il metabolismo in tempo reale, aprendo la strada a dispositivi-clinica che monitorano idratazione, pressione, lattato e perfino «stress digitale».

Un segnale viene già dalle app di terze parti: Training Today, per esempio, traduce i micro-dati biometrici dell’Apple Watch in un punteggio “readiness to train” che si aggiorna di continuo e suggerisce quando spingere sull’allenamento e quando, invece, riposare. Non è medicina, ma un assaggio di consulenza algoritmica personalizzata che potrebbe estendersi a dieta, sonno, lavoro mentale.

Alla frontiera estrema, Elon Musk sperimenta l’abolizione totale dell’interfaccia: Neuralink, dopo il primo impianto umano, conta di dimostrare che un paziente può «controllare telefono e computer solo con il pensiero». Il chip Telepathy promette di tramutare l’intenzione neurale in comandi digitali, spalancando scenari che vanno dalla riabilitazione motoria alla telepresenza pura, ma anche sollevando dilemmi etici su sicurezza, privacy cognitiva e disuguaglianze di accesso.

Fra hype e prudenza si muovono i designer. Carsten Eriksen, fondatore dell’agenzia danese Swift Creatives, osserva che Vision Pro «ha messo le fondamenta dello spatial computing», ma ammette che il vero salto sarà «integrare la tecnologia in occhiali sottili e socialmente accettabili»; la sfida, dice, è rendere l’AI meno intimidatoria e più intuitiva nella vita quotidiana. È una questione tanto tecnica quanto culturale: accetteremo di indossare sensori permanenti solo se il linguaggio del prodotto – forme, materiali, gestualità – saprà rassicurarci.

Cinque anni da oggi vedranno quindi un paesaggio ibrido: smartphone sempre più specialistici (fotografia computazionale, gaming in cloud, AI on-device) affiancati da occhiali leggeri per notifiche contestuali, pin-assistenti per micro-task, bracciali haptic per digitare senza tastiera. Dieci anni più in là, il telefono potrebbe ridursi al ruolo di nodo-batteria, mentre lo spazio fisico si popolerà di proiezioni, audio spaziale e overlay informativi che appaiono solo quando servono. La transizione non sarà lineare né priva di passi falsi, ma il trend è chiaro: l’intelligenza artificiale, diventando infrastruttura, spinge il dispositivo a farsi corpo diffuso.

Per gli utenti – e per i lettori di Mac Peer – la promessa è quella di un computing meno invasivo, quasi “conversazionale” con il mondo reale. Il rischio, tuttavia, è che l’invisibilità diventi opacità: più i terminali scompaiono, più il flusso di dati personali scorre dietro quinte che pochi possono ispezionare. L’innovazione dei prossimi dieci anni, insomma, non sarà soltanto hardware; passerà per nuovi patti di fiducia fra consumatori, aziende e regolatori, e per un’educazione digitale che insegni a dialogare con assistenti onnipresenti senza diventarne sudditi.

In fondo, come ha ricordato Tim Cook nel bel mezzo di un’era di rivoluzioni annunciate, «c’è ancora molto da inventare». Il che vale sia per chi costruisce i gadget sia per chi dovrà immaginare le regole del loro utilizzo. Fra cinque e dieci anni vedremo se gli occhiali avranno davvero sostituito il rettangolo di vetro o se, più semplicemente, avremo scoperto un nuovo modo di farli convivere – lasciando al vero protagonista, l’AI, il compito di orchestrare il tutto con garbo invisibile.


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Mac Peer

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