L'assedio
Racconto di Gugnihr

Avevo iniziato a scrivere con la speranza di dare forma e vita ai sogni e alle visioni che avevo sempre cercato con tanto trasporto, nel tentativo di raggiungere mondi fantastici e meravigliosi in grado di risvegliare il mio spirito intorpidito dalla noia di un'esistenza piatta e incolore, ma non ci volle molto perché mi accorgessi che scrivere non era affatto l'attività passionale e vibrante che avevo creduto. Davanti al foglio bianco ciò che acquistava importanza era la costruzione delle frasi, la scelta del termine adatto ad arricchire la narrazione della giusta enfasi. Avevo sempre avuto l'impressione di immagini e visioni di bellezza inebriante che turbinavano nella mia mente come venti di un uragano ma quando avevo provato a coglierne qualcuna, a scomporre la tempesta di sensazioni per riordinarle in maniera organica il tentativo non aveva mai avuto un buon esito. Come i venti che si abbattono sulla terra sconquassando gli alberi e alzando onde formidabili attraverso i mari non possono essere afferrati dalla mano di un uomo ogni idea su cui mi soffermavo si rivelava inconsistente e incolore. La forma si era rivelata molto più importante della sostanza e anzi, col passare del tempo mi ero reso conto che meno ero coinvolto in quello che raccontavo e maggiore era la probabilità di scrivere una buona storia. Riuscivo a vivere di quello che scrivevo ma la mia esistenza era avvelenata da un grigio disinteresse per tutto ciò che mi circondava, dall'insoddisfazione e dalla noia. Lo stesso scrivere come attività era arrivata al punto di irritarmi, immaginavo il mio cervello come un campo coltivato ad ortaggi inadatti al terreno in cui erano stati piantati. Così un giorno mi ritrovai sulla porta di una piccola abitazione di forma pressoché cubica incassata in una rientranza sul fianco di una collina. Non distava più di un paio di chilometri dal mare, ma le altre colline intorno lo escludevano alla vista. Avevo deciso di trascorrere qualche tempo in quella casa isolata nel tentativo di ottenere finalmente quello per cui avevo iniziato a scrivere. Avevo preso questa decisione come un capriccio, in realtà non c'era molta differenza tra me a quel tempo e un bambino che avesse sbattuto i piedi a terra urlando perché non voleva una copia identica del giocattolo che aveva appena rotto ma il suo vecchio giocattolo, e non si sarebbe accontentato di niente di diverso. Mi chiusi nel polveroso scantinato della casa. Fuori la vegetazione della collina ricadeva molle di umidità sui vetri sporchi dell'unica finestra. Dal buio della stanza spuntavano ovunque vecchi oggetti che stipavano i mobili e le mensole tutto intorno e sembravano piegare su di me il loro peso ogni volta che mi sedevo davanti alla macchina da scrivere, sotto all'unica lampadina che illuminava l'ambiente. In quei giorni passavo lunghe ore davanti al foglio bianco senza venire a capo di nulla. Cominciai a passare sempre più tempo chiuso nello scantinato, rimanevo alzato fino a notte fonda scorrendo i miei pensieri come fossero l'archivio di una biblioteca finché la testa non mi faceva male. Allora sentivo il cervello come stretto nella morsa di un pesante elastico e ogni capacità di concentrazione spariva irrimediabilmente. Mi accorsi di sentirmi a disagio in quella stanza. Spesso mentre ero intento a battere sulla macchina da scrivere provavo l'irresistibile impulso di voltarmi ad osservare la porta a vetri alle mie spalle, dietro cui le scale salivano verso il pianterreno, come se una mano d'ombra avesse allungato le sue dita sulle mie spalle. Passai così diverse settimane estraniandomi sempre di più dal mondo esterno alla ricerca di fantasie da cui pretendevo quel senso di soddisfazione che vi avevo sempre attribuito ma che non ero mai riuscito a ricavarne. Un giorno un temporale spaventoso si era abbattuto in quella zona. La pioggia cadeva incessante da molte ore e il suo rumore sembrava più quello di una cascata che quello di un temporale. Il cielo e la terra sembravano avvolti in un sudario grigio attraversato dalle ombre nere di enormi nuvole che si accavallavano freneticamente le une sulle altre. Il vento soffiava così forte da far sbattere tra loro i rami di tutti gli alberi intorno. Molti si spezzavano con schianti e crepiti e venivano trascinati via dal soffiare del vento. La corrente però non era saltata e io non avevo pensato all'eventualità che potesse farlo, per cui mi trovavo ancora seduto al centro dello scantinato davanti alla macchina da scrivere nella speranza che la tempesta potesse portare un pò d'ordine tra le mie idee confuse. All'improvviso cadde un fulmine talmente vicino alla casa che il tuono si alzò distintamente sopra il fracasso assordante dell'acqua, del vento e degli alberi. Fu come sentire la terra esplodere sotto i miei piedi e la realtà stessa tremare come impazzita. Lo schianto terrificante mi fece sobbalzare e, voltandomi di scatto verso la porta a vetri alle mie spalle, vidi dall'altra parte, orribilmente avvolta nel buio nonostante la luce del lampo avesse abbagliato tutto lo scantinato, una figura rinsecchita come un cadavere che mi osservava con una curiosità malvagia e un ghigno spaventoso che metteva in mostra denti affilati come una tagliola. Mentre la creatura si ritirava nel buio con i suoi artigli oscenamente lunghi ed uno sguardo carico di odio vidi un'infinità di minuscole bocche prive di denti che si aprivano su quel corpo avvizzito, allora mi portai le mani al volto e le vidi ricoprirsi di sangue. Davanti agli occhi stava scendendo un velo rosso che mi annebbiava la vista e sentendo ormai il sangue scorrere in fiotti densi e freddi lungo tutto il corpo mi inginocchiai a terra e aspettai, finché il rumore della pioggia non si fece sommesso e lontano e tutto intorno a me fu buio e silenzio.

 

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